La parola, fascino e complessità
11 marzo 2022 | Persone

La parola, fascino e complessità

La sociolinguista Vera Gheno su Kamala Magazine

by Valentina Chittano
Redazione Metropolitan ADV
Per vent’anni ha collaborato con l’Accademia della Crusca. E già questo basterebbe a dare un’idea di quanto Vera Gheno consideri importanti la parola e il linguaggio. Sociolinguista specializzata in comunicazione digitale, docente all’Università di Firenze dove cura da tempo il Laboratorio di italiano scritto per Scienze Umanistiche per la comunicazione, nei suoi interventi sia scritti sia orali, si dimostra aperta a un mondo in continua evoluzione di cui è pronta ad accettarne le difficoltà, pur riconoscendone sempre la bellezza.
 
Ci piacerebbe una tua riflessione sul tema che fa leit motiv di questo numero di Kamala, partendo dal tuo ultimo saggio, “Le ragioni del dubbio”, in cui ti soffermi proprio sull’abitudine diffusa di parlare e scrivere senza fermarsi un attimo a pensare. Interveniamo spesso nelle discussioni senza alcuna competenza e il nostro modo di comunicare forse fa vedere quanto poco peso diamo alle parole. Che responsabilità abbiamo in tal senso?
 
Ognuno di noi ha una responsabilità molto grande nei confronti della bolla comunicativa nella quale vive. C’è una tendenza umana molto spiccata, la cosiddetta “othering”, l’assegnare sempre a qualcun altro la colpa di ciò che ci succede attorno. Invece dovremmo assumerci maggiore responsabilità avendo consapevolezza che questa si estende oltre i nostri comportamenti individuali perché come società abbiamo la possibilità di esercitare una pressione di approvazione o disapprovazione nei confronti della gente che ci circonda. In fondo il giudizio del pari è quello che ascoltiamo di più.
L’attenzione in tal senso è di non diventare dei castigamatti, ma on serenità e fermezza insieme possiamo esprimere dei giudizi, per esempio su come si comportano i media. Non dobbiamo subire e basta.
 
E nell’ambito della comunicazione social questa responsabilità è amplificata, visto che è principalmente una comunicazione scritta e potenzialmente rimane visibile per un tempo lunghissimo, come dici nel tuo “Potere alle parole”?
 
In questo ambito consapevolezza e responsabilità si amplificano, sia perché è vero che la comunicazione scritta rimane più a lungo, sia perché ha un rich molto più alto. I nostri atti comunicativi on line arrivano anche a molte più persone, spesso eterogenee, ben oltre il gruppo che immaginavamo e quindi risulta essenziale pesare le parole con più attenzione. Il panorama mediale è cambiato tantissimo, soprattutto negli ultimi dieci anni. Il numero e la tipologia delle persone sono cresciuti e si sono diversificati, quindi non è ammissibile che si pensi solo nella logica del “sono logo che si offendono troppo facilmente”. Non possiamo dare per scontato che una comunicazione che fino a ieri andava bene, oggi sia ancora valida.
 
C’è un modo giusto di usare la nostra madre lingua? Si può trovare il vero equilibrio tra uso e norma o è utopico pensare di raggiungerlo viste le innumerevoli sfumature di contesti, significati, situazioni ecc.?
 
Bisogna rinunciare a cercare “la” soluzione, “la” risposta ai nostri dubbi. La complessità va guardata appunto nella complessità e di conseguenza nella sua imprevedibilità. Ci sono infiniti modi giusti per comunicare, adattandosi ai vari contesti e ai vari interlocutori. È quindi accettando la complessità che forse si può arrivare a una sorta di “felicità della comunicazione”. Ai modi giusti si arriva per approssimazione. In un suo saggio Tullio De Mauro dice che la scuola dovrebbe insegnare non a come si devono dire le cose, ma a come si possono dire. Questo è sempre stato un mio principio guida: rinunciare a comprendere la complessità e accettarla come tale.
 
Ultima domanda, una curiosità figlia soprattutto degli ultimi tempi, più sensibili a questo discorso. Sei a favore o meno dell’uso dello schwa? Può essere davvero risolutivo nell’ambito dell’inclusività (con tutte le accezioni positive e negative che ha questo termine, come tu stessa hai fatto notare)?
 
Non è questione di essere a favore o contro, è questione di prendere atto di un’esigenza che io fino a un certo momento della mia vita bio avevo visto, cioè la necessità di autodefinizione linguistica delle persone non binarie o di chi non si identifica nel maschile o nel femminile, insieme anche alle conseguenze psicologiche dell’uso del maschile sovraesteso che non è senza conseguenze. Il maschile usato come neutro non è decodificato dal nostro cervello come neutro, ma come maschile. Che peso sociale ha questo? C’è una soluzione alternativa? Come risolvere il disagio linguistico di chi non si identifica nel maschile o nel femminile? Si prende atto dell’esistenza di soluzioni “fatte in casa” in particolare da gruppi LGBT+ come la “u”, la “x”, l’apostrofo, l’asterisco, lo schwa ecc. Tra tutte, quella che mi aggrada dei più è lo schwa. Da studiosa non dovrei giudicare o essere a favore o contro, ma semplicemente chiedermi se c’è una soluzione ottimale e basta.
Il grosso problema sulla discussione è quella di parlare in maniera apodittica: a favore o contro? Bisogna invece chiedersi semplicemente se ci si è accorti dell’istanza. Il fatto che ci siano colleghe e colleghi anche titolatissimi che ritengono sia tutta una moda, mi sembra grave perché hanno perso la loro capacità di ascoltare la società.
 
Intervista pubblicata su Kamala ECO E VOCI - scarica la rivista qui