La bellezza è un suono
26 aprile 2020 | Persone

La bellezza è un suono

Daniele Cassioli, campione con Il vento contro

by Valentina Chittano
Redazione Metropolitan ADV

“Quello che adoro di te è il saper prendere qualsiasi individuo senza giudicarlo”.

 

Avete mai provato a scrivere una lettera d’amore a un’entità astratta? Per accorgervi poi che di astratto ha solo il nome e che invece custodisce dentro di sé un intero mondo di opportunità, coraggio, sorrisi, pianto e sudore? Daniele Cassioli si è rivolto allo sport come all’amico più caro, come a un eroe, “un dono a vantaggio degli umani”, un’ancora di salvezza. 

 

Il pluripremiato campione paralimpico di sci nautico, fisioterapista, non vedente dalla nascita, che conta al suo attivo 22 titoli mondiali, 25 europei e 35 italiani, incarna pienamente l’insegnamento de “Il Piccolo Principe”. L’essenziale è invisibile agli occhi e lo sport offre un’opportunità straordinaria di cogliere il valore di ciò che a volte ci sembra addirittura superfluo o di cui non ci accorgiamo, pur vedendoci benissimo.
Così la bellezza diventa in un attimo un suono e in questa sinestesia Daniele Cassioli ci insegna ad avvertire il bicchiere mezzo pieno e a cercare ne “Il vento contro”un’opportunità, non un ostacolo.

 

La vista è il senso che ci fa recepire gli stimoli in superficie e passivamente. Tu dici che è con l’udito e l’olfatto che entriamo davvero nelle cose…
Beh, devo tirare un po’ di acqua al mio mulino. La vista è obiettivamente una fortuna perché ti dà tutto e subito. Non potendo vedere invece devi sforzarti, devi comporre un puzzle, costruire una mappa in cui poterti muovere. E devo dire che questo ti fa apprezzare le cose ancora di più. Non vedere è anche un modo per conoscere senza filtri. Quando vedi una persona, vedi ciò che quella persona ha scelto di farti vedere. Quando invece la abbracci, ne senti il profumo e la vivi, emerge la spontaneità che a volte abbiamo anche paura di tirare fuori. 

 

A proposito di abbracci…Nel tuo libro parli di un episodio molto significativo che riguarda Fabri, un tuo amico in carrozzina. Puoi raccontare di cosa si tratta?
È un fatto accaduto poco prima di andare in stampa. Ed è stata una cosa molto forte per me. Si crede che, a chi è sulla sedia a rotelle, la cosa che manchi sia l’uso delle gambe. Certamente è così, ma Fabri mi ha confidato che ciò che in realtà gli manca di più è essere abbracciato. Difficilmente quando incontriamo una persona che è sempre seduta ci viene spontaneo piegarci per abbracciarla. Al massimo le diamo la mano o una pacca sulla spalla. Allora mi sono messo sulle sue gambe e l’ho abbracciato. Ho sentito il suo cuore e tutta la sua gratitudine. Non ci godiamo più nulla, diamo tutto troppo per scontato e abbiamo tanti pregiudizi, io per primo. 

 

Tu affermi che la cecità è una condizione, non una condanna. Cosa vuol dire?
Tutto dipende da come ci poniamo davanti a ciò che ci accade. Se crediamo che quello che ci succede è opera di un ente superiore, di un Dio che decide per noi, allora ci sentiamo condannati a qualcosa su cui non abbiamo alcun potere. La condizione è invece qualcosa che possiamo prendere in mano noi. La mia vita ha cambiato forma e colori da quando mi sono reso conto che stavo vivendo una situazione all’interno della quale il mio modo di affrontare le cose era ed è fondamentale.

 

Sei un giovane che non ha paura delle sfide. Come fai a metterti in gioco con così tanta facilità?
Nell’ambito della disabilità, la cecità in particolare, c’è la tendenza ad abbassare gli standard. A volte il rischio di accontentarsi ti fa sentire un fringuello. Ma io mi sono chiesto: perché non posso essere un albatro? Perché non posso allargare le ali al massimo? Perché non posso esagerare? Ma questo vale per chiunque. Non si tratta di avere paura, bisogna solo prendere consapevolezza di sé e non rinchiudersi nella condizione di chi non può.

 

Un insegnamento che potrebbe essere uno sprone importante soprattutto per i ragazzi. In che rapporto sei con loro?
Non ho figli, ma sono a metà strada tra i ragazzi e gli adulti. I piccoli sono quello che i genitori permettono loro di fare. Io credo molto nella libertà di espressione. Devono poter parlare, dire cosa pensano, come si sentono. Quante volte li trattiamo come qualcosa che ci appartiene, ma che in fondo non ci riguarda. Invece sono in grado di sorprenderci e sanno essere straordinari. Tendiamo a sottoporli costantemente al giudizio, invece io li rispetto molto, anche nelle domande più banali che possono fare perché, quando avvertono che ti stai mettendo in gioco con loro, danno il meglio di sè.

La Sestero Onlus, l’associazione con cui collaboro, che conosce la disabilità e aiuta a convivere con il tesoro che è in grado di donare, è molto in linea con questo concetto. Ogni bambino che viene allenato prima nel cuore, può sorprendere.

 

Una riflessione sulla fiducia, da parte tua, mi sembra il modo migliore per concludere questa intervista…
Io mi fido ciecamente di professione (sorride, ndr). La fiducia è un po’ un obbligo. Quando compri un vestito, quando arredi casa, di qualcuno ti devi fidare. Spesso ci è più facile fidarci di chi non conosciamo (lo chef di un ristorante, l’autista di un taxi…) e ci è complicato fidarci di chi ci vuole bene. Forse è solo paura di esporci, paura di essere traditi. Questo succede e succederà sempre, ma non deve farci tagliare i ponti con il mondo. Se io non mi fidassi della mia guida, nello sci nautico, non potrei saltare. Perché dobbiamo rinunciare al nostro salto?

 

Articolo apparso su Kamala Magazine, n. 3 Estate 2019 , semestrale gratuito scaricabile qui